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Hommages, articles, études sur l’œuvre de Salah Stétié

Daniel Rondeau « Poète et prophète »

 in L’Express, 14 décembre 2000.

Un Mahomet inattendu nous arrive en ce temps de l’avent et du ramadan.
Non pas à dos de chamelle, ni sur un fringant coursier, mais livré à domicile, en 360 pages, par un poète ayant pris l’habit du biographe, et qui s’amuse en passant de nous rapporter le peu d’amabilité du Coran pour les poètes : «Ils sont suivis par ceux qui s’égarent.» Ou encore : «Ils divaguent dans chaque vallée.» Un portrait est venu d’une ancienne place forte d’Afghanistan, autrefois occupée par Alexandre et pilonné il y a peu par les taliban, Herat, orne la couverture du livre.
Salah Stétié se tient à l’entrée de son livre comme à la porte de sa maison, quand Beyrouth était encore Beyrouth. Il murmure un vers de Claudel en guise de bienvenue : «Ô Dieu qui est en moi plus moi-même que moi», cite le nom de Massignon, qui exprime à lui seul, disait Aragon, un grand désir de réconciliation entre le juif, le mahométan et le chrétien, «comme une image de l’humanité future».
L’auteur se présente d’un mot – «humaniste» – et confesse s’être lancé dans cette aventure sur les pas de Lamartine, qui écrivit Une vie de Mahomet dans son Histoire de la Turquie, pour saisir à son profit «une possible image […] bien amarrée (en lui et en dehors de lui) comme un aimant à ses épingles de fer».
Voici donc l’histoire d’un homme, Mohamed (570-632), rien qu’un homme, berger puis caravanier de son état, aimant «les femmes, les parfums et la prière». C’est la nuit (en Orient, la nuit est toujours la saison de la parole), sous les astres brûlant froid de l’Arabie, dans le désert qui enserre La Mecque, qu’une voix lui dit : «Lis !» On pense au «Tolle ! Lege !» de saint Augustin, à cette différence essentielle que Mohamed est illettré (en état d’enfance propre à recevoir l’illumination, disent les exégètes français). La voix appartient à Dieu le Très Généreux et le livre que que l’inculte est appelé à déchiffrer est celui qu’il reçoit sous la dictée divine. La révélation dure pendant vingt-deux ans. Le Coran (récitation, lecture et prédication) contient l’ensemble des messages transmis d’en haut par l’ange Gabriel, «en langue claire arabe», ainsi élevée au rang de langue sacrée. Mohamed est invité à les communiquer à ses semblables.
Avec lui, les Arabes ont enfin trouvé leur prophète, «un prophète ethnique, écrivait Michel Hayek, originaire des Nations qui n’ont pas reçu d’écriture». Mohamed se place dans la lignée d’Abraham. Il continue Moïse et Jésus. Chef d’un petit groupe de fidèles, devenu chef d’état, briseur d’idoles, législateur, guerrier, époux de quelques femmes, dont Khadija et Aïcha, le premier musulman de l’Histoire fonde la troisième religion monothéiste, qui compte aujourd’hui un milliard de fidèles, soit le sixième de l’humanité . Mohamed, «illettré majeur», est sorti du désert au bon moment, quand les patriarches de l’Orient chrétien se déchiraient et que les hommes pieux d’Arabie commençaient à se lasser d’adorer des pierres. La terre entière s’est ouverte «au déploiement de sa signature».
L’Orient du pétrole et des fanatismes a remplacé celui des fins sublimes. L’islam est devenu une «citadelle assiégée». «Assiégée par les autres, mais surtout par lui-même», écrit Stétié. A Alger, au Caire, à Kaboul, il est confisqué par des prêcheurs de guerre et des lanceurs de poignard. Et tout autour de Jérusalem, la ville trois fois sainte, à Gaza et dans les territoires occupés, l’Histoire a rompu le pain de la haine.
C’est sur ce fond d’incertitude tragique («Un Orient sans sagesse, un Orient sans force, un monde sans bonheur», disait déjà Morand) que Salah Stétié a voulu inscrire son Mahomet, «prophète ravagé par le dire de Dieu et ployé sous sa dictée». Un poète écrit sa fidélité à la foi de son enfance, à la lampe de ses parents, qui brûle sans que le feu la touche. Il «refuse de quitter le navire», mais embarque pour des navigations spirituelles ses amis Vigny, Bataille, Rimbaud et Maître Eckart. Il n’oublie pas non plus la Schéhérazade des Mille et Une Nuits.
Son dernier mot ? Lumière.

Mario Luzi

Préface au livre de Giovanni Dotoli Salah Stétié, le poète, la poésie 

Oggetto e soggetto di questa poderosa opera di studio e di informazione, davvero meticolosa e agguerrita, è un poeta non molto noto in Italia, presente invece con grande spicco nelle file della poesia francese attuale.
Dotoli, sul tema prescelto: la poesia di Salah Stétié, ha aperto l’obiettivo a trecentosessanta gradi che distingue i lavori di ricerca per le grandi occorrenze accademiche; ma lo ha fatto con intelligenza e adesione viva e insieme con accortezza, dando progressivamente credito alla creatività e alla sapienza del poeta libanese, usando in modo persuasivo le innumerevoli referenze critiche (della migliore critica) e quelle del poeta stesso nella sua interminabile riflessione, nonché, naturalmente, le sue proprie osservazioni.
D’altra parte provvedeva l’autore stesso a erigere e ad annullare il suo « caso » quando dalle citazioni dei suoi chiosatori che venivano riferite, confermava la sua azione effettiva, quella in cui i suoi lettori, ammirati, si incontrano concordi: una chiara liturgia verbale
che illumina le parole e le abilita da molto lontano a significare. A significare se stesse, la loro nascita, la loro antica invenzione. Non saprei dire se è stato ripristinato miticamente il rapporto tra la parola e la cosa significata. Questa è un’altra questione: ma forse non è così importante dal momento che la poesia di Salah Stétié non vive di correlazioni con gli accadimenti o con lo stato inerziale delle cose, e dunque tanto meno vive di funzioni ma è essa stessa azione creativa. Tutte le sue parole anzichè celebrare o commemorare fanno, esse stesse, esistere o attuano tanto il loro perchè quanto il loro splendore; e generano, sì, immagini e seducenti riti associativi e adagi e cantilene interne al liguaggio stesso, ci fanno assistere e partecipare al primario insorgere dello stato pitico (inesorabilmente mediterraneo), ma senza fini o programmi disegnativi.
Eppure questa festa gratuita, piena di autochiaroveggenza non è per nulla astratta. Non per effetto di partenogenesi verbale ma per cordiale espansività dell’epicentro emotivo che comanda la composizione, sotto specie di ritmo, poniamo, le poesie di Stétié enunciano un contenuto. E, sia subito chiaro, non è un contenuto tautologico o glossolalico, vale a dire non si vota alla celebrazione del suo stesso processo, ma accumula senso ed immagine, illumina la parola che li esprime, e dà loro risonanza e vigore: non di rado questo incremento di potenza si estende alla metrica, se vogliamo tenerla distinta dal ritmo come componente analitica nell’esame di stile e di retorica. Anche la metrica istituita, certuni dei metri tradizionali francesi, riceve una rigenerazione dalla vena fresca e tutto sommato casta del poeta libanese.

dotoliQuali sono i nodi di significazione, quale è il motivo del loro scorrimento o del loro indugio incantato? Sarebbe difficile enunciarli almeno quanto sarebbe difficile sorvolarli, a tal punto si immedesimano con la causa prima e intemporale della emotività poetica mediterranea: la bellezza, il suo linguaggio domestico e incontenibile: linguaggio, come è fatale domandarsi, assoluto o mediato? Per un poeta mediterraneo, appunto, inseparabile dalle sue ascendenze orfiche si tratta di un dilemma, anzi di una ambiguità irresolubile, per quanto in se stessa felice.
L’arte, disciplina e gioco, alimenta ciò che c’è di gioioso nel praticarla, ma non ignora, ne è conscia, che specie ha la sapienza depositata nell’oscuro, nel sottofondo.
L’arte, ripeto. E qui interviene per me un altro intrigante motivo di inchiesta: cioè la rispondenza tra la ligua atavica e quella usata e scelta. Stétié, ci dicono le biografie, è libanese di ascendenza araba. Il Libano appartiene da secoli alla regione mediterranea francofona. Viene da domandarsi quale passaggio è stato quello tra l’arabo e il francese nella primaria pulsione espressiva di un poeta di questa specie. Non credo ci sia da concedere troppo all’ipotesi della autotraduzione. Se non vado errato, l’autore di questo studio non la prende neppure in considerazione.
In realtà è impensabile che il linguaggio di Stétié giaccia e viva in seno a una lingua che anche solo in principio supponga un suo parallelo, una possibile equivalenza in un’altra.
In ogni caso il francese di Stétié è e non è il francese dei suoi contemporanei: al suo linguaggio poetico affluisce certo la lingua (francese) che lo ha formato e informato, ma la lingua che riceve pienamente, in toto, la sua creatività di scrittore non è il francese rigorosamente selezionato dalla diacronia nella massima parte dei suoi colleghi, bensì il francese nella totalità delle sue intemporali risorse, formalizzate o non, grammaticalizzate non compiutamente e dunque duttili agli estri e alle proteiformi esigenze di un ingegno di questo tipo, cioè mediterraneo.
Salah Stétié entra di proposito nell’orizzonte linguistico letterario francese ma il suo talento lo immerge nel crogiolo secolare delle poetiche a ravvivarne la temperatura.
Tutto quello che in fatto di autoreferenza e introspezione analitica e autodefinitoria, tutto quanto di induttivo e di pitico la poesia da Holderlin a oggi ha detto o tentato di dire si è riservato sul grande pellegrino Stétié e ha dato uno speciale piglio alle voci della sua accoglienza.
Di tutto questo sterminio di proposizioni trattengo due frasi semplici e illuminanti, anzi fondamentali: dove, esaurito il repertorio dei luoghi ricorrenti, scoccato verso il bersaglio della definizione ogni altro dardo, si dice « la poesia è una mancanza » (la poésie est en
manque, elle nait d’un manque). Questo è nella irrefutabilità del vissuto prima che nella opinabilità del pensato;e seguono dalle profondità novalisiane altre affermazioni irreversibili: « la poesia capta una particella di verità, è la realtà che coincide per un attimo con l’essenza ».

Si sarà, spero, compreso a un di presso in che territorio e in che alto livello si svolge il fervore speculativo e l’azione poetica di questo autore fecondo, venuto dall’oriente con ogni facoltà spirituale di ritorno ad animare il quadro attuale della poesia europea.

MARIO LUZI

C’est la langue qui m’a parlé

Extrait de Sauf Erreur, entretiens avec Frank Smith et David Raynal, éditions Paroles d’Aube, 1999

QUELLES LANGUES PARLEZ-VOUS ?

Je me demande, moi qui suis plein de carrefours linguistiques, si j’ai jamais réussi à parler. Comme diplomate, j’ai dû souvent retenir ma langue. Comme poète, il me semble que c’est ma langue qui m’a parlé. Ajoutez à cela le conflit entre deux langues, de directions, de valeurs et d’origines tout à fait différentes, l’arabe d’une part. le français de l’autre, et vous voyez combien le débat linguistique en moi-même aurait pu être violent.
Eh bien, curieusement, il n’en a rien été. C’est vrai, entre mes deux langues mères, j’ai assez miraculeusement évolué. Je ne me souviens pas d’avoir subi d’oppression dans ce domaine, et cela pourrait tenir ­– ce n’est là qu’une hypothèse – au fait que, professionnellement et poétiquement. j’ai toujours été un frontalier, un douanier-passeur, un contrebandier, sans crainte ni complexe. Ni vu ni pris : c’est peut-être là une définition du passage clandestin, de cet insaisissable dont me parlait une fois René Char, citant, si je ne m’abuse. Denys d’Halicarnasse : « Dans les bras du ravisseur, il y a toujours l’imprenable. »
Bref, langue pour langue, libre de toute systématisation linguistique structurée d’avance, j’aurai parlé ma langue ou, en tout cas, j’aurai essayé de le faire. Il me semble que. malgré les apparences, le langage de poésie est aujourd’hui plus essentiel que jamais. Dans la césure où, du fait des médias, des techniques, des technologies, du Web et de tout le reste, on assiste à la montée irrépressible de nouveaux langages codés, il apparaît qu’outre l’usage utilitaire de la langue qui. lui, va de soi, la langue créatrice, la langue créative, la langue de toute mémoire d’avenir (formule que je reconnais comme hautement paradoxale) ne peut être que la poésie : « la langue de la langue », comme il m’est arrivé de la définir.
On peut être créateur dans une langue sans être forcément poète dans cette langue. Après tout, un romancier, un philosophe, un essayiste a, lui aussi, comme matière première, la langue, et. lui aussi, par la porosité de sa langue au réel et sa capacité de captation de ce même réel, il s’oppose à la montée des codes.
Mais. j’y insiste, c’est le poète qui est l’agent le plus actif face aux langages plus ou moins momifiés de la technique et de la technologie. Le poète n’est pas seulement un utilisateur de la langue : par l’invention dont il charge ses mots, par la nouveauté dont se lustrent ses images, par la liberté qu’il impose aux liaisons existant entre la langue et le monde, il est celui qui restitue chaque fois à la langue sa fraîcheur première. C’était déjà Mallarmé qui voulait « donner un sens plus pur aux mots de la tribu ». Et c’est Stravinski qui affirme que la nouveauté en art, c’est de « chercher une place fraîche sur l’oreiller ». C’est enfin Adorno qui parle « du muet dans la langue », autrement dit de ce silence interactif qui travaille autour d’un noyau central infracassable – comme le noyau infracassable de nuit de Breton – à faire rayonner sombrement. doublant leur lumière, le sens des mots, devenus chacun « soleil noir ».
Djelâl-Eddine Roûmi, le grand poète soufi du XIII° siècle, l’énonce à sa façon. Parlant de Dieu :  » Il est l’oiseau de la vision et ne se pose pas sur les signes « , écrit-il.

 

Yves Bonnefoy « Deux langues mais une seule recherche »

fievre

Avant-propos au livre Fièvre et guérison de l’Icône, éditions de l’Imprimerie Nationale/éditions de l’UNESCO, Paris, 1998

On dit volontiers aujourd’hui que notre parole va son chemin sans rencontrer jamais d’aspects du monde ou de situations de la vie qui échapperaient à sa prise et néanmoins nous pénétreraient d’une vérité qui leur serait propre. Le réel ne serait selon cette vue que le produit du langage. Est-ce vrai ? Oui, pour ce qui est des objets, en cela artificiels, à l’aide desquels nous avons bâti notre lieu, mais ne s’attacher qu’à ceux-ci, et aux événements qui s’y articulent, serait ne pas tenir compte des moments pourtant innombrables qui, au contact de la réalité naturelle, bouleversent nos systèmes de représentation et nous font ainsi percevoir dans la profondeur de notre rapport à nous-mêmes des dimensions que recouvre la pensée qui se fait langage et, dans cet espace des mots, se voue au concept. Qu’une nuée se déchire, par exemple, qu’un rayon de soleil se glisse entre ces deux masses d’ombre, et voici que quelqu’un en nous s’éveille à une expérience de l’instant – du temps transfiguré par l’instant – qui à la fois nous dit notre finitude et comment celle-ci peut-être vécue comme autre que le manque et même l’énigme que l’existence qu’enchaîne le discours uniquement conceptuel croit devoir constater dans ce qui est.

Le vrai, c’est que le langage est environné par une réalité qui l’excède mais non sans le dominer de ses cimes, visibles du lieu même où nous nous cherchons parmi les mots et leurs choses; et c’est aussi qu’il y a entre ce premier plan, notre parole ordinaire, et cet arrière-plan, tout d’unité, de simplicité, mille chemins d’abord pavés puis herbeux sur lesquels la recherche humaine peut s’engager : une pente, bien vite abrupte, c’est sur, qu’on peut dire la poésie. – Et ce fait incite à une question, entre beaucoup d’autres, une question qui, dans ce champ de la conscience fondamentale, me paraît devoir être la réflexion obligée de toute poétique moderne, en ce temps où aucune langue n’existe plus, au fond de la vallée que j’évoque, sans une connaissance et une pratique toujours accrues de nombre des autres langues, que rapproche d’elle la multiplication des échanges.

Cette question, c’est – pour en rester à ma métaphore – celle des chemins, des sentiers qu’en chaque langue les poètes ont découverts ou frayés aux marges les plus lointaines de son emploi notionnel afin d’essayer d’aller vers ce grand réel indéfait et chargé de feux qui se profile au-delà de leurs moyens – de leur aliénation – linguistiques. Ces chemins sont-ils en toutes les langues les mêmes ? Certaines de ces dernières n’ont-elles pas, du fait de quelques-uns de leurs caractères – nés eux-mêmes d’une relation nécessairement singulière à leur lieu physique -, accès à des raccourcis, vers le haut rebord si abrupt ? Tandis que d’autres bénéficieraient de trajets plus longs mais alors ombreux et parfois presque riants vers la même cime à des moments dérobés sous le feuillage des choses ? En bref, n’y a-t-il pas autant de savoirs, de pratiques du monde, spécifiquement poétiques que de langues, ou de familles de langues ? Avec, ici ou là, des lambeaux d’expériences du grand objet extérieur qu’il serait aussi passionnant qu’utile d’identifier, par l’étude comparative des grandes œuvres de la poésie de chacune ?Je me pose cette question en pensant à Salah Stétié qui se l’est posée lui-même, et même qui a fait plus, puisqu’il n’a pas hésité à passer de la réflexion à l’acte, en quittant hardiment l’espace verbal du sein duquel s’élançait son regard premier pour entrer dans un autre dont il n’est pas douteux qu’il soit extrêmement différent. D’une part, dans la parole natale, les mots qui disent immédiatement, primordialement, le soleil, les pierres nues et les ombres dures, le décolorement des objets dans la chaleur de midi, le délice des sources, les voûtes fraîches où reparaît la couleur dans les à-plats de l’émail ; et de l’autre, dans la langue d’accueil, une tradition de sous-bois, d’eaux qui courent sous les racines, de ciels changeants, de choses clairement définies par une lumière ni très forte ni trop brumeuse, au jour de laquelle le regard peut se confier avec fruit à des pratiques en demi-teintes et léger relief qui sont aisément des bonheurs. En d’autres mots, peut-on imaginer univers plus différents que ceux de la langue arabe et du français ? C’est pourtant sur le pont à l’évidence vertigineux qui mène de l’un à l’autre que Salah Stétié s’est risqué ; et comme en poésie il ne s’agit pas de rester, tel un touriste de la parole, au plan superficiel des impressions fugitives, mais de découvrir en se souvenant, d’approfondir ce qui s’offre avec les moyens de qui l’on fut et demeure, il n’y a pas à douter que cette œuvre, qui est assurément poésie, ait de quoi répondre à la question que je pose. Ce qui me fait souhaiter quelle soit étudiée de ce point de vue aussi par une critique qui en a reconnu déjà l’originalité et la qualité.

Je me contenterai, pour ma part, d’attirer l’attention sur un aspect de la poésie de Stétié qui me paraît important pour la réflexion sur le rapport des langues et de la réalité au-delà : un aspect d’ailleurs essentiel, ce que l’on pourrait dire son intense verbalité. Dans tout poème la matérialité du mot, sa nature de son, est là pour concurrencer par un souci de musique l’articulation des notions – et de leurs relations – que véhiculent ou instituent les éléments du discours, et c’est là une situation certainement aussi dangereuse que nécessaire à l’intuition qui s’ébauche en poésie. Affaiblie par la recherche des allitérations et des rythmes mais nullement effacée, simplement empêchée d’observer jusqu’au bout ce qui pourrait être sa rigueur propre, la pensée conceptuelle peut se laisser aller dans cette sorte de texte à des associations floues, à un pseudo-dire : à ce qu’on peut appeler du verbalisme. Mais quand ce risque est déjoué, et qu’alors le mot désigne la chose sans plus être tenté de la formuler – c’est-à-dire de lui substituer une essence, et rien d’autre en cela qu’une représentation incomplète -, le bénéfice est immense. Car c’est le plein de cette chose comme le regard la perçoit qui se porte du coup au premier plan de la dénomination, et peut inscrire dans le poème un peu d’immédiateté, un peu d’infini : un peu de mémoire de l’unité originelle perdue. Un mot qui montre, parce qu’il n’explique pas, un mot qui s’ouvre donc aux rapports silencieux que nous avons par en dessous la parole avec ce qui est, un mot pour voir – et aussi savoir – autrement : voilà ce qu’est la verbalité, au cœur de la création poétique.Stétié a cette verbalité. Ses poèmes frappent par leur pouvoir de miner par diverses voies et désagréger la notion. Retour d’abord de tel ou tel mot de son vocabulaire essentiel, par une itération qui affaiblit de son simple fait le contexte de significations où elle se produit, puisque ce contexte change et que le grand mot fondamentale lui, demeure : incantation qui coupe court aux virtualités du concept, creusant les strates du discours, retrouvant au-dessous, comme une source jaillit, l’évidence propre à la chose dite. Puis, souvent, ces groupes de mots – ainsi : « illuné par la lune », reprise du substantif par le verbe, apparente tautologie – qui, loin de mettre en relief accru les notions qu’ils ont à leur avant-plan, dans le cas présent « lune », ou « lumière », font de celles-ci, instruments habituels de l’explication du monde, les voies paradoxales de l’évidence au-delà. « Illuné par la lune », écrit Stétié, et voici exprimé de faon directe que l’apparaître sensible – l’enveloppement d’un arbre, disons, par la clarté de la lune – ne souffre aucune analyse, ne s’explique que par soi-même, est tout aussi impénétrable, mystérieux, que la lune elle-même, que la lumière : ce qui étend jusqu’au bout des ramifications de la phrase l’être-là du ciel de la nuit comme il s’offre en ces instants où, malgré les mots, notre conscience de l’autre se fait silence.

Et que d’oxymores, dés lors, dans ces pages de vue et non de vision qui transgressent le plan où la conceptualisation de l’objet eut obligé à choisir entre un attribut et son contraire ! Que d’images aussi, telle cette « rose de froid », qui pourraient paraître des métaphores – les cristallisations du givre sur une vitre, ce sont bien, en effet, des « roses de froid » – mais sont en réalité des déplacements dans le réseau des associations prévisibles jusqu’en un point où aucune de ces dernières n’est plus désormais concevable, ne sera plus attendue : si bien qu’on est alors tout à fait à l’avant de la parole, là où des parois d’invisible se resserrent, au sein même de l’évidence, autour de celui qui écrit. En somme, c’est dans la poésie de Salah Stétié comme si le texte en était une vaste draperie couverte d’images peintes, mais dans un vent qui la fait bouger, qui défait donc ces images, qui disqualifie l’idée du monde qu’elles auraient pu substituer au monde. La surface de la pensée en est remuée, nous sommes appelés à entrer dans l’inconnaissance – un mot que Stétié emploie quelquefois et qui ne signifie nullement que nous soyons voués sur ces voies à ne rien connaître. Car, c’est vrai, cette poésie ne décrit pas un lieu, n’écrit pas une vie, au moins de façon explicitable, n’évoque pas des événements ; ce poète ne semble se souvenir dans son poème d’aucun de ces moments de la conscience ordinaire. Mais les mots qui nous sont rendus par lui si ouverts nous aident à nous écrire nous-mêmes, ils sont notre lisibilité soudain possible de par l’intérieur de nos actes. Ils aident à transfigurer en présences, en participations à la présence du monde, nos objets, nos savoirs les plus quotidiens.

Une tapisserie dans le vent. Et, pour revenir à la question que je me posais, un premier élément peut-être pour la réflexion sur Stétié entre ses deux rives dans le langage. Cette impression de tapisserie gui bouge, de représentations qui se défont dans un grand remuement continu de la matière verbale, avec parfois même pour la conscience un sentiment de vertige, devant une réalité où manquent les points d’appui de la pratique ordinaire, c’est inusuel dans la poésie de langue française. Sans doute parce que notre lumière du jour ou de la nuit est sans violence trop grande, notre climat tempéré, ce qui sert la cause des choses devant l’esprit, par de multiples aspects, par des relations qui s’éploient avec détails et nuances, ce n’est pas dans le rapport direct à l’objet, c’est par des ensembles disséminés dans la nature ou à ses confins – la course du ruisseau dans les prés, par exemple, avec vallonnements, haies et fleurs, ou l’étendue de chemins, d’arbres, de maisons éparses ou un horizon circonscrit – que la réalité est perçue, son appauvrissement conceptuel remarqué, souffert, sa reconquête poétique effectuée ou à tout le moins désirée. Et il s’ensuit de ce rapport de foisonnement entre langue et réalité naturelle que des agrégats de représentations demeurent dans la parole en français, Une consistance du proche y résiste à la dissipation des figures. La tapisserie qui ailleurs défait les images qui y sont peintes ne bouge pas trop ici, dans le grand vent du désir de l’absolu. Et en revanche, s’il y a chez Salah Stétié cette verbalité plus marquée, avec partout dans son œuvre une radicalité qui en signifie le caractère fondamental, n’est-ce pas parce que ce poète nourri des impressions du désert a dans ses yeux la sorte d’objets que dans son pays la lumière brûle : lumière pure, consumation qui fait de la plupart de ces présences de choses le foyer aussi d’une absence, et maintient loin l’idée du néant dans l’épreuve des réalités qui auront à s’affirmer absolues ?

Une telle lecture, qui fait élection pour l’existence jour aprés jour de moins de biens que n’en désirent d’autres formes de poésie – mais ces biens en seront dés lors plus intensément aimés, l’esprit aura fait alliance avec eux pour y perpétuer un sacré -, j’imagine que la langue arabe l’a intériorisée à sa parole, je crois donc qu’écrivant comme il le fait, Stétié y est demeuré fidèle. Et je constate ainsi qu’en tant que poète en français il nous enrichit d’une conscience du monde qu’aucune traduction ne nous permettrait de revivre de façon aussi immédiatement partageable.

Mais je ne veux pas détourner vers l’aridité de réflexions sur la poésie et ses langues un lecteur qui a droit à la rencontre d’un texte. Et je me bornerai, saluant le livre d’aujourd’hui, à évoquer ces moments des années cinquante où le jeune Salah Stétié, tout frémissant de la fièvre de sa parole, me parlait des beautés et de la vérité poétique de la civilisation ancienne et toujours vivante que nous dénommons Proche-Orient : mais moins par ethnocentrisme – au moins veux-je croire – que parce que l’Orient c’est l’aube, que l’on a certes bonheur à savoir proche. Stétié était tout entier déjà cette intuition à la fois double et une dont s’est approfondie son écriture ultérieure. Et s’il conjoint deux langages, ce n’est certes pas aux dépens de l’unité de son existence.

Eric Naulleau « Salah Stétié, poète des deux rives »

in Le Monde Diplomatique, septembre 1996

LE Grand Prix de la francophonie 1995 a ceci de particulier que son lauréat, Salah Stétié, parvient à réconcilier trois notions passablement antagonistes dans l’esprit de beaucoup : l’arabité, la méditerranéité et la francophonie. Salah Stétié se veut avant tout beyrouthin, « c’est-à-dire malheureux », ajoute-t-il avec un humour frotté de mélancolie. L’auteur de Liban pluriel, éloquemment sous-titré Essai sur une culture conviviale (1), a maintes fois exprimé cette appartenance génétique à un monde pluriel, que symbolisèrent longtemps le pays des Cèdres et sa capitale, notamment dans ce passage où se mêlent les voix du diplomate (2) et du poète : « Sous croix et croissant, [ouvert] à bien des idéologies naissantes, dans l’édification morale et matérielle de ses structures engagées dans l’avenir, le Liban, où tout l’Orient venait hier à la rencontre de tout l’Occident… » Toutefois, l’« ultime port de la Méditerranée » et ses alentours ne sauraient ici dériver loin des sables d’Arabie. Difficile d’imaginer une œuvre plus consubstantielle à cet espace entre golfe et océans, suivant la vision consacrée.
Avec les quatre essais dédiés à la révélation mahométane et rassemblés sous le magnifique intitulé Lumière sur Lumière (3), le plus beau texte en prose de Salah Stétié pourrait à ce propos bien être Réfraction du désert et du désir (4), méditation enfouie au plus ancien de la mémoire méditerranéenne qui s’organise autour d’une scène capitale, jouée et rejouée par la qacida, poème arabe préislamique : « Le narrateur s’arrête en plein désert devant les vestiges d’un campement : il y a là les traces, cendres ou pierres, d’une présence qui fut en ces mêmes lieux couleur et vie avant de s’évanouir à l’horizon. (…) Et c’est là que brusquement l’équation, la redoutable et redoutée équation, s’inverse : du fond de l’absence, ce qui va soudain advenir en épiphanie sollicitée et miraculeusement produite par l’arbitrage du désir intensificateur, c’est la figure de l’aimée, qui fut l’hôte de ce campement. » La Méditerranée de Salah Stétié, une mer intérieure assurément.
L’œuvre de l’écrivain libanais est le lieu d’un ressac poétique, d’un questionnement immuable sous des apparences changeantes : poésie, essai, traduction. « La Méditerranée existe-t-elle ? », est-il demandé dans Les Porteurs de feu (5). Question emblématique d’une pensée qui n’a eu de cesse, en une trentaine d’ouvrages, de cerner une présence-absence, de capturer l’instant innommé entre flux et reflux, si bien qu’une revue a pu consacrer l’un de ses numéros à Salah Stétié et la Méditerranée noire (6). En plus des volumes exclusivement dédiés à des thèmes méditerranéens, le « vieux rivage » surgit au détour de tous les volumes d’essais, comme Le Nibbio et L’Ouvraison (7).

SALAH STÉTIÉ a désiré que sa parole poétique l’une des plus hautes de ce temps s’énonce en français. Il insiste volontiers sur ce choix, d’ordre amoureux, qui distingue les écrivains arabes francophones de leurs homologues belges ou suisses. Dès lors, ses recueils Inversion de l’arbre et du silence (8) ou Obscure lampe de cela (9) évoquent autant de ponts sonores jetés d’une rive à l’autre de la Méditerranée entre les poètes arabes des temps anciens et Mallarmé. Les textes en prose révèlent plus clairement encore combien la langue française se trouve payée de retour par cet amant généreux, sous les espèces d’une syntaxe électivement gauchie, comme pour souligner une plus haute exigence de l’expression. « Comme si rien n’eût mérité qu’on ne désigne que Lui, tout alentour du doigt tendu des mosquées, qui promène une longue ombre heureuse, c’est la grisaille indéfinie, on ne sait quoi, la matière merveilleusement inexacte. Émerge parfois, de tant de pierre extrême ou de vapeur, pour une absence plus vaste encore, une Porte. On la dirait le monument d’une oreille (10). » Un disciple d’André Breton ne pouvait ignorer qu’avant de s’échouer dans la jungle et de prêter le flanc aux métamorphoses les plus fécondes la locomotive doit tout d’abord quelque peu dérailler.

(1) Liban pluriel, Essai sur une culture conviviale, Naufal, Beyrouth, 1994.
(2) Salah Stétié fut ambassadeur du Liban au Maroc et aux Pays-Bas.
(3) Lumière sur Lumière, Les Cahiers de l’égaré, Le Revest-des-Eaux, 1992.
(4) Réfraction du désert et du désir, Babel, Arles, 1994.
(5) Les Porteurs de feu, Gallimard, Paris 1972. Prix de l’amitié franco-arabe 1973.
(6) « Salah Stétié et la Méditerranée noire », Aporie (669, route du Colombier 83200 Le Revest-des-Eaux). 1990.
(7) Le Nibbio et L’Ouvraison, José Corti, Paris, 1993 et 1995.
(8) Inversion de l’arbre et du silence, Gallimard, Paris 1981. Prix Max-Jacob 1981.
(9) Obscure lampe de cela, Jacques Brémond, Remoulins-sur-Gardon, 1979.
(10) Extrait d’Un suspense de cristal, Fata Morgana, Saint-Clément-la-Rivière, 1995.

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